METAL PARK – VILLA CA’ CORNARO, ROMANO D’EZZELINO (VI) 06 LUGLIO 2024

METAL PARK – VILLA CA’ CORNARO, ROMANO D’EZZELINO (VI)
06 LUGLIO 2024

FOTO REMI GALIAZZO TESTO ANDREA COMPAGNIN SI RINGRAZIA VERTIGO PER L’OSPITALITA’

Fine settimana interamente dedicato all’Heavy Metal quello che si è svolto lo scorso 6 e 7 luglio nella cornice di Ca’ Cornaro a Romano d’Ezzelino per la prima edizione di Metal Park, ovvero il Rock the Castle rinominato e trasferito dal veronese al vicentino.
Una prima edizione che si potrebbe definire quasi una data zero. Prove tecniche per Vertigo utili a testare location, servizi e potenzialità di affluenza di un’area molto appetibile, che poi è la stessa utilizzata anche da AMA Music Festival.
Chi conosce la zona sa infatti che il parco di Villa Ca’ Cornaro è circondato dal verde, con ampi spazi ordinati, ben oltre la media degli altri festival, dove sono presenti zone d’ombra, area parcheggio, area campeggio, aree ristoro e aree con servizi igienici.
Attenzione però a non confondere Metal Park con AMA in quanto le due organizzazioni sono distinte. E la diversa impostazione organizzativa si è fatta notare fin da subito per la presenza all’interno del festival dei famigerati token non rimborsabili, da acquistare in quantitativo minimo di cinque, per accedere a food & beverage.
La giornata di sabato, oggetto di queste righe, seppur priva di nomi roboanti è stata invece ricchissima di sostanza e divertimento.
Ad aprire il festival è toccato ai connazionali Moonlight Haze, seguiti dagli inossidabili alfieri della NWOBHM Tygers of Pan Tang, che con soli 30 minuti a disposizione e il pubblico ancora impegnato a digerire il panino, hanno dato quel che potevano.
Alle 14.30 è stato quindi il turno della seconda band italiana, i Rhapsody of Fire. Con il loro power metal, a volte forse fin troppo epico, sono addirittura riusciti a far cantare il pubblico nonostante il gran caldo.
L’ingresso di Richie Kotzen vede un cambio di sonorità e per i miei gusti anche di marcia. La voce di Kotzen, la sua chitarra (e che chitarra), basso e batteria. Non serviva altro. Stile, classe e groove rovesciati a quintalate sui fortunati presenti.
Neanche il tempo di respirare che Michael Monroe e la sua band ci caricano tutti sulle montagne russe per un’imprevedibile (in tutti i sensi) performance. Una prestazione al fulmicotone tra spaccate, discese tra il pubblico e arrampicate del cantante sui tralicci del palco. Vittima sacrificale di tutto ciò si rivelerà essere un tecnico di palco, costretto per l’intero set a saltare da una parte all’altra dello stage a causa dell’indisciplinato Monroe. Vuoi per liberare fili attorcigliati sotto i monitor, vuoi per cambiare i microfoni che lo stesso Monroe provvedeva a distruggere, vuoi per raccogliere aste lanciate oltre gli amplificatori. Il tutto tra gli innumerevoli e poco affettuosi “FUCK” che lo stesso Monroe ha rivolto al povero tecnico. Una banda di veri pirati che tutti noi vorremmo avere presenti ad una festa, a patto che la stessa non si svolga nel giardino di casa nostra.
Tocca agli Stratovarius riportare l’ordine e ricondurre i presenti tra i sicuri binari di un power metal tecnico, elegante e di classe che però non lascia spazio all’imprevedibilità. Il gruppo è famoso e gode di un discreto seguito. Nonostante siano in molti a pensare che il power metal abbia già raggiunto i suoi apici il pubblico dimostra invece che l’interesse per questo genere è ancora più che vivo.
Con la giornata che volge a sera salgono sul palco gli attesissimi Darkness, accompagnati di lì a poco da un paio di forti scrosci di pioggia che però non scoraggiano i presenti. L’acquazzone dura poco e in tempo zero il pubblico è ricompattato sottopalco a cantare sui loro pezzi più famosi. Nulla da dire, quello dei Darkness è un rock’n’roll suonato bene. Si vede che i ragazzi sanno intrattenere anche se è fin troppo chiaro che quasi tutto il compito ricade sulle spalle di Justin, leader e cantante del gruppo. Un vero inglese al 100% che non perde occasione per dimostrarlo anche nei suoi atteggiamenti verso il pubblico, tra lo sbruffone e il canzonatorio. Quando ad esempio ironizza con il povero popolo italico a causa della generale scarsa comprensione della lingua inglese. Succede infatti che sul finire del set egli si rivolga all’audience dicendo: “We have TWO more songs for you!”. In tutta risposta dal pubblico si alza forte e chiaro il coro “ONE-MORE-SONG-ONE MORE-SONG-ONE-MORE-SONG. Justin sorride e scuote la testa.
Arrivati a questo punto non restava che l’headliner della giornata. Bruce Dickinson si presenta al pubblico del Metal Park con qualche minuto di ritardo sull’orario previsto, probabilmente a causa del quarto di finale Inghilterra-Svizzera, vinto ai rigori dagli inglesi proprio pochi minuti prima dell’inizio del concerto. Da fiero imperialista e caricato a molla per la vittoria degli inglesi zio Bruce degna i presenti di una prestazione magistrale, merito anche della sua strepitosa band. Difficile comunque togliere gli occhi da una tale divinità dell’heavy metal, tanto è raro poterlo osservare così bene da vicino. Da solo sul palco potrebbe azzerare coloro che gli stanno attorno (e le band che lo hanno preceduto). Concede invece a tutti i suoi musicisti il giusto spazio. Bruce Dickinson si dimostra pieno di inesauribili energie e investe tutti con la sua aura e con una voce ancora chiara e di una potenza imbarazzante. Il concerto decolla con il pubblico che partecipa sempre e con trasporto a tutti i pezzi proposti, tratti dal repertorio solista del cantante degli Iron Maiden, con menzione particolare per Tears of The Dragon, intonata da tutto il pubblico all’unisono.

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